Lo studio dei ricercatori dell’Ifom di Milano e del Cnr-Igm di Pavia, appena pubblicato su Nature Cell Biology, dimostra che il coronavirus viola i sistemi delle cellule, ne danneggia il Dna e impedisce di ripararlo
Perché Sars-CoV-2 ha un impatto cosí grave sulla salute umana rispetto ad altri virus respiratori? Questa la domanda da cui sono partiti i ricercatori dell’Ifom di Milano e del Cnr-Igm di Pavia, con il contributo dei virologi dell’Icgeb di Trieste, per per scoprire quali sono le basi molecolari della sua aggressività e degli effetti deleteri che provoca.
Lo studio, pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature Cell Biology, ha concluso che il coronavirus viola i sistemi delle cellule, ne danneggia il Dna e impedisce di ripararlo, provocando invecchiamento e infiammazione. Gli autori la definiscono una vera e propria “operazione di hackeraggio”, che potrebbe essere utile conoscere nell’ottica di sviluppare nuove strategie farmacologiche finalizzate a limitare gli effetti di Sars-CoV-2.
«Tutti i virus, si sa, sono parassiti. Entrano in una cellula e iniziano a sfruttare tutto quello che viene messo a disposizione dalla cellula infettata per replicarsi e diffondersi – spiega Fabrizio d’Adda di Fagagna, responsabile del laboratorio Ifom “Risposta al danno al Dna e Senescenza Cellulare” e dirigente di ricerca all’ Igm-Cnr di Pavia – E il Sars-CoV-2 è un virus particolarmente avido e abile. Nel nostro laboratorio ci siamo chiesti come avvenga questa operazione di hackeraggio da parte del virus e se vi possa essere una connessione con quei processi che studiamo quotidianamente in ambiti patologici solo apparentemente distanti, quali tumori, malattie genetiche e condizione legate all’invecchiamento: tutti eventi accomunati dall’accumulo di danno al Dna».
Partendo da queste premesse, i primi autori Ubaldo Gioia e Sara Tavella, ricercatori di Ifom, hanno individuato, attraverso l’uso di diversi sistemi cellulari in vitro, le cause molecolari alla base degli effetti deleteri del Covid, e ne hanno trovato conferma in vivo, sia in sistemi modello murini di infezione, sia in tessuti post-mortem derivati da pazienti Covid.
«Quello che abbiamo osservato – illustrano Gioia e Tavella – è che Sars-CoV-2, una volta entrato nella cellula, ne dirotta i processi fondamentali, costringendola a smettere di produrre deossinucleotidi, i “mattoni” del Dna, per farle produrre i ribonucleotidi ovvero i “mattoni” che servono a sintetizzare l’Rna della cellula e, soprattutto, quello del virus. È proprio questa alterazione del processo cellulare operata dal virus a proprio vantaggio a consentire l’esplosiva replicazione virale all’interno della cellula infetta».
Una conseguenza di tale sfruttamento dei meccanismi cellulari da parte del virus risulta essere la carenza di deossinucleotidi: «La cellula – descrivono i ricercatori – non riesce a replicare adeguatamente il proprio Dna e accumula danni nel suo genoma. Abbiamo scoperto inoltre che il virus, oltre a causare la rottura del Dna per mancanza di deossinucleotidi, interferisce anche con i meccanismi cellulari di riparazione di questo Dna danneggiato, inibendo una particolare proteina (la 53BP1) essenziale per il processo di riparazione».
Questi due eventi, danneggiamento del Dna e inibizione della sua riparazione, hanno effetti drammatici sulla cellula infetta e sui pazienti. «Tra questi – commenta d’Adda di Fagagna – sicuramente il precoce invecchiamento delle cellule, detto senescenza cellulare, e l’associata produzione di citochine infiammatorie. Non a caso la principale causa dei sintomi più gravi nei pazienti affetti da Covid è proprio un’eccessiva produzione di citochine infiammatorie, nota come “tempesta di citochine”. In base ai risultati ottenuti abbiamo evidenziato come l’accumulo di danno al Dna, l’unico componente insostituibile delle nostre cellule, possa dare un contributo importante alla tempesta infiammatoria scatenata dal virus».
Gioia e Tavella aggiungono un altro elemento: «Fornendo alle cellule infettate un supplemento di deossinucleotidi abbiamo dimostrato che, riducendo il danno al Dna causato dal virus, abbattiamo anche i livelli di infiammazione».
«È importante sottolineare – precisa d’Adda di Fagagna – che senescenza cellulare e infiammazione cronica sono alla base dei processi di invecchiamento, che esso sia fisiologico o patologico, e infatti molti scienziati stanno scoprendo sempre più frequentemente evidenze di un invecchiamento accelerato in casi di gravi di Covid. In questo senso sarà importante studiare anche la correlazione tra queste nostre nuove scoperte e condizioni quali il cosiddetto long Covid, per sviluppare nuovi trattamenti farmacologici che limitino gli effetti di tale patologia».
Questo studio – conclude d’Adda di Fagagna – non sarebbe stato possibile senza l’indispensabile collaborazione dei laboratori dell’Icgeb di Trieste condotti da Alessandro Marcello e Serena Zacchigna che hanno compiuto gli esperimenti di infezione virale e analisi di materiale da pazienti».
Oltre all’Icgeb hanno collaborato allo studio di Ifom il San Raffaele di Milano (Matteo Iannacone), l’Università degli Studi di Padova (Chiara Rampazzo), l’Istituto neurologico Besta (Paola Cavalcante) e l’Università degli Studi di Palermo (Claudio Tripodo).